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La Farina di grano saraceno

Nome scientifico: Polygonun Fagopyrum L.

Tipica farina dal colore scuro, usata in molte ricette tradizionali ed indicata per chi soffre di intolleranza al glutine.

La farina di grano saraceno, detta anche bigia per il suo caratteristico colore grigio scuro, è il principale ingrediente di nostre ricette tradizionali come i pizzoccheri, gli sciatt e la polenta, ma la troviamo anche in altre cucine tradizionali quali ad esempio quella russa dove viene usata per la preparazione di piccole focacce chiamate blinis.


E’ una farina particolarmente adatta alla produzione di cibi salutistici. Il grano saraceno, anche dopo la macinazione, mantiene un particolare tipo di amido a più lenta digestione particolarmente indicato nella dieta dei diabetici. Un altro componente di cui la farina è ricca è la rutina, un composto in grado di prevenire la fragilità capillare.
Risulta perfettamente tollerato dagli individui che soffrono di celiachia per cui la farina pura (cioè non miscelata con quella dei frumenti) può essere utilizzata per produrre paste, polente, dolciumi o prodotti da prima colazione che possono essere assunti da individui affetti dal morbo celiaco.

Origine: è una pianta spontanea nelle zone della Siberia e della Manciuria. La coltura si è propagata alla Cina nel secolo X e nel Medioevo è stata introdotta in Occidente, dove era sconosciuta. Circa i modi di propagazione della pianta si fanno diverse ipotesi, ma le più accreditate sono le seguenti: i Turchi avrebbero introdotto la pianta in Grecia e nella penisola balcanica. Da questa ipotesi deriverebbe il nome di Grano saraceno, cioè grano dei turchi o saraceni. La seconda ipotesi sostiene che la diffusione sia avvenuta attraverso l’Asia e l’Europa del Nord ad opera delle migrazioni dei popoli mongoli che dalla Russia meridionale portarono il grano fino alla Polonia e alla Germania, da dove si sarebbe diffuso nel resto d’Europa. E’ probabile che entrambe le tesi siano valide e che la propagazione sia avvenuta contemporaneamente sia da Nord che da Sud.

Caratteristiche: appartiene alla famiglia delle Polygonaceae: ha radice a fittone, stelo erbaceo variamente ramificato, di colore fra il verdastro e il rossiccio; le foglie sono sagittate o cordate-triangolari, alterne, peduncolate se poste inferiormente e quasi sessili se poste superiormente. L’infiorescenza è un racemo corimbiforme costituito da fiori ermafroditi con ovario monospermico bi o tristilato e con stimmi a capocchia. Gli stami sono otto, di cui tre interni e cinque esterni.
Il frutto è un achenio tipicamente trigono di colore bruno argenteo o grigiastro, più o meno lucente.
Il grano saraceno sopporta male il freddo, e pertanto esige di essere coltivato nella stagione primaverile-estiva durante la quale esso riesce a svolgere rapidamente il proprio ciclo biologico. La pianta manifesta accentuata adattabilità a terreni dotati di reazione acida. Per quanto nei Paesi del Nord Europa e del Centro Europa questa pianta compaia come cultura principale, in Italia rappresenta soprattutto una coltura intercalare praticata dopo un cereale autunno-invernale, come per esempio la segale o più raramente, il frumento.

Utilizzo: i semi bruni triangolari vengono utilizzati come foraggio per animali d'allevamento, o macinati e ridotti in farina per uso alimentare. Le piante intere vengono anch'esse impiegate dagli allevatori come foraggio o lettiera per il bestiame. Il miele di grano saraceno è scuro e molto saporito. Rispetto alla farina di frumento, la farina di grano saraceno è priva di glutine ed è, in generale, più povera di proteine, ma contiene maggiori quantità di amido.

In Valtellina: per quanto riguarda la Valtellina le notizie in merito all’introduzione del grano saraceno sono scarse. La sua introduzione si fa risalire alla fine del 1600: ne parla per la prima volta Giovanni Guler Von Weinech, governatore grigionese della valle dell’Adda nel 1616.
La coltivazione del grano saraceno è stata una delle colture più caratteristiche della Valtellina. La tipica farina nera che se ne ricava è alla base di piatti quali i pizzoccheri, gli sciat e la polenta nera che per secoli sono stati dei preziosi alimenti per le popolazioni locali.
Questo cereale veniva coltivato soprattutto sul versante retico delle Alpi, esposto più a lungo al sole e con un clima più favorevole che ne permetteva la maturazione anche alle quote alte. I comuni che più si dedicavano alla coltivazione del saraceno erano Cercino, Traona, Mello, Civo, Dazio, Ardenno, Buglio, Berbenno, Postalesio, Castione, Sondrio, Montagna, Poggiridenti, Tresivio, Ponte, Chiuro, Teglio, Bianzone, Villa di Tirano, Vervio, Grosotto e Grosio. Sulla sponda orobica i soli comuni che coltivavano il saraceno erano Talamona, Faedo, Piateda, Aprica, Sernio, Lovero, Tovo e Mazzo.
Non si hanno dati certi sulla produzione del grano saraceno nel passato poiché la granaglia ricavata era destinata prevalentemente alla produzione di farina per l’autoconsumo e quindi non esisteva un vero e proprio mercato. L’unico modo per cui il saraceno costituiva merce di scambio era rappresentato dal canone pagato dai conduttori dei contratti di livello.
Il paese di Teglio, essendo un grande produttore di grano saraceno, pagava i canoni di livello con tale merce soprattutto ai proprietari terrieri che risiedevano nei comuni dove il formentone (altro nome del saraceno) non veniva coltivato (cioè buona parte dei comuni del versante orobico).
Si sa comunque che la produzione del comune di Teglio sarebbe stata più che sufficiente a soddisfare il consumo dei residenti, ma proprio perché veniva distribuito in vario modo in tutta la Valle, il fabbisogno di granaglie si rivelava in realtà deficitario.


La produzione del grano saraceno come per tutti gli altri cereali si sviluppò fino al 1800 anche perché le necessità alimentari costrinsero i valtellinesi a colonizzare le zone disagiate e improduttive e a seminare il grano anche fra i filari del vigneto come risulta dal censimento fatto nel 1800 dagli amministratori locali. Con l’annessione della Valtellina alla Lombardia le cose cambiarono. I nuovi contatti con la Pianura Padana, che fino ad allora erano limitati dalla dominazione grigionese, permisero ai valtellinesi di rifornirsi di granaglie a prezzi più bassi. Questo indusse i coltivatori ad abbandonare i campi di grano saraceno per dedicarsi ai vigneti e alla produzione di uva da cui si ricavava il vino che era molto richiesto fuori provincia.
Intorno al 1830 la produzione del saraceno era solo di poco inferiore rispetto a quella del granoturco, mentre la segale deteneva il primato in campo cerealicolo. Già a partire dagli anni 1850 si parlava di progressivo abbandono della coltivazione del grano saraceno, anche se veniva raccomandata l’opportunità di non trascurarla del tutto.
Verso la fine del secolo la produzione era già di molto ridotta, mentre nel primo decennio del 1900 era praticamente dimezzata. Nel 1938 si notava qualche aumento presumibilmente per via della politica autarchica del fascismo, simboleggiata dalla cosiddetta "battaglia del grano". Fino agli anni 50 o 60 i campi di saraceno erano ancora abbastanza numerosi, ma dieci anni dopo le superfici e i coltivatori si erano dimezzati fino a giungere al quasi totale abbandono della coltura. Le principali cause dell’abbandono vanno ricercate nella caduta delle rese unitarie, nella mancanza di mercato, nella mole di lavoro necessario per la coltivazione.
Oggi la farina per la preparazione dei tipici piatti locali viene ricavata dalla macinazione del grano che viene importato dalla Cina tramite una ditta olandese. I maggiori importatori in Italia sono le ditte Tudori e Filippini di Teglio che macinano nei loro mulini per sé e per altre aziende che commercializzano la farina nera.

Il grano saraceno era seminato ai primi di luglio nei terreni dov’era stata colta la segale. Giungeva a maturazione ed era colto verso la fine di settembre. Dopo la mietitura era lasciato ad essiccare in piccoli covoni nel campo. Anche la battitura era effettuata in uno spazio pianeggiante, dove erano stesi dei rustici tappeti e si raccoglievano i chicchi che cadevano sotto i colpi del coreggiato. Prima di riporlo nei sacchi doveva essere ripulito dalle scorie degli steli rossicci con un setaccio rotondo del diametro di circa un metro e con il fondo in vimini.

"Il sapore delicato che si sogna fino al pasto successivo"

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